Corporate State e N.R.A.

Da oltre due anni il popolo degli Stati Uniti collabora con il presidente Roosevelt nel suo sforzo di risolvere le difficoltà economiche e sociali americane. Essi sono consapevoli che il presidente non si preoccupa solo della ricostruzione economica immediata, ma anche di una riforma sociale ed economica duratura. Ecco perché credo che il popolo americano sia in una posizione particolarmente favorevole per comprendere gli sforzi del premier Mussolini per risolvere gli urgenti problemi economici in Italia e per stabilire allo stesso tempo un nuovo e migliore sistema sociale ed economico.

Il fascismo arrivò al potere in Italia in un momento di profondo e violento attrito tra capitale e lavoro. Il conflitto minacciava non solo la stabilità economica del paese ma anche quella politica. Le organizzazioni radicali, soprattutto quelle socialiste, avevano ottenuto una forte presa sulle classi lavoratrici e cominciavano a dare alla lotta per il progresso economico una svolta decisamente politica. Oltre alle gravi perdite economiche causate da un numero sempre crescente di scioperi e serrate, era imminente il pericolo di una completa trasformazione delle basi politiche dell’intera struttura dello Stato italiano. Fu soprattutto per far fronte a questo pericolo che sorse il movimento fascista.

II

Chiunque conosca la storia d’Europa sa che la tendenza associativa nella natura umana è stata influenzata da due forze fondamentalmente opposte. Da un lato c’è la tendenza a combinarsi con altri uomini di occupazione simile, sia a scopo di protezione che di realizzazione. Ma dall’altra c’è una tendenza verso l’emancipazione da questi gruppi occupazionali e di conseguenza verso la libertà individuale (come quando la Rivoluzione Francese rovesciò le corporazioni medievali e proclamò la libertà del lavoro).

Ma la nuova libertà non poteva prosperare entro gli stretti limiti geografici dei paesi europei. Ancora oggi c’è un’enorme differenza tra la flessibile struttura politica e sociale degli Stati Uniti, un paese di vasti spazi aperti, e la relativa rigidità del quadro politico e sociale dell’Europa. La differenza sta nella possibilità di iniziativa economica offerta agli uomini dal territorio che è l’America e dal territorio che è l’Europa. Negli Stati Uniti, i conflitti sociali sono sorti principalmente da questioni di produzione. Gli americani hanno sempre cercato garanzie per l’iniziativa economica individuale. In Europa, i conflitti sociali ruotano da secoli intorno alla questione della distribuzione della ricchezza. Gli europei, confinati in territori limitati, hanno trovato una rigida organizzazione per occupazione o per gruppi economici un valido mezzo per risolvere i problemi legati alla distribuzione dei salari e dei profitti.

La differenza nei due processi storici è stata acutamente espressa dal presidente Roosevelt nel suo libro “Looking Forward”:

La crescita dei governi nazionali in Europa fu una lotta per lo sviluppo di una forza centralizzata nella nazione, abbastanza forte da imporre la pace ai baroni dominanti. In molti casi la vittoria del governo centrale, la creazione di un forte governo centrale, fu un rifugio per l’individuo. Il popolo preferiva il grande padrone lontano allo sfruttamento e alla crudeltà del padrone più piccolo a portata di mano.

Ma i creatori del governo nazionale erano per forza uomini spietati. Erano spesso crudeli nei loro metodi, sebbene si sforzassero costantemente di raggiungere qualcosa di cui la società aveva bisogno e che desiderava molto: uno Stato centrale forte, capace di mantenere la pace, di eliminare la guerra civile, di mettere il nobile indisciplinato al suo posto e di permettere alla maggior parte degli individui di vivere in sicurezza.

L’uomo dalla forza spietata aveva il suo posto nello sviluppo di un paese pioniere, proprio come ha fatto nel fissare il potere del governo centrale nello sviluppo delle nazioni. La società lo pagò bene per i suoi servizi per il suo sviluppo. Quando lo sviluppo tra le nazioni d’Europa, tuttavia, fu completato, l’ambizione e la spietatezza, avendo servito il suo termine, tendevano a superare il segno.

Si diffuse ora la sensazione che il governo fosse condotto a beneficio di pochi che prosperavano indebitamente a spese di tutti. Il popolo cercava un bilanciamento, una forza limitante. Gradualmente si arrivò attraverso i consigli comunali, le corporazioni commerciali, i parlamenti nazionali, attraverso le costituzioni e la partecipazione e il controllo popolare, a limitare il potere arbitrario.

Dopo aver ricordato al lettore il duello decisivo tra Jefferson e Hamilton, tra centralismo e individualismo, il presidente Roosevelt trova nelle condizioni economiche proprie degli Stati Uniti le cause della vittoria e del successivo sviluppo dell’individualismo economico e politico americano. Continua:

Così iniziò, nella vita politica americana, il nuovo giorno, il giorno dell’individuo contro il sistema, il giorno in cui l’individualismo fu reso la grande parola d’ordine della vita americana. La più felice delle condizioni economiche rese quel giorno lungo e splendido. Sulla frontiera occidentale la terra era sostanzialmente libera. Nessuno che non si sottraeva al compito di guadagnarsi da vivere era completamente senza opportunità di farlo. Le depressioni potevano andare e venire, ma non potevano alterare il fatto fondamentale che la maggior parte della gente viveva in parte vendendo il proprio lavoro e in parte estraendo il proprio sostentamento dalla terra, così che la fame e la dislocazione erano praticamente impossibili. Nel peggiore dei casi c’era sempre la possibilità di salire su un carro coperto e trasferirsi a ovest, dove le praterie incolte offrivano un rifugio agli uomini ai quali l’est non offriva un posto.

Le conseguenze sociali di questa differenza ambientale si riflettono nell’atteggiamento dei due popoli verso lo stato. Il cittadino americano ha sempre vissuto a distanza dal suo governo e si tiene istintivamente lontano da esso. L’europeo, al contrario, ha sempre visto lo stato come fonte di potere, sicurezza e diritto. Su ogni istituzione che l’europeo crea desidera istintivamente il sigillo dell’approvazione statale. È richiesto dal suo temperamento, dalla sua concezione della funzione dello stato, dalla sua secolare tradizione di disciplina. Questa è la cornice storica in cui il corporativismo italiano deve essere interpretato.

In accordo con i dettami della natura nei due continenti, la tendenza sociale prevalente negli Stati Uniti è stata verso un raggruppamento in vista della produzione, ad esempio i trust, con tutte le conseguenze familiari della lotta tra blocchi verticali; mentre in Europa la tendenza è stata verso un raggruppamento in vista della distribuzione della ricchezza. Di conseguenza in Europa c’è stata una separazione dei principali elementi della produzione, capitale e lavoro, in due strati sociali ostili, e una conseguente lotta orizzontale di classi.

Era dunque naturale che, quando nel dopoguerra aumentò lo spreco di energie nel conflitto di classe, la ricostruzione sociale fosse iniziata in Italia con un tentativo di riconciliare capitale e lavoro nell’interesse di tutta la nazione, e che si dovesse poi procedere, sulla base di tale riconciliazione, a una nuova organizzazione economica in forma corporativa. Ed era altrettanto naturale che, in circostanze simili, gli Stati Uniti avessero cominciato a stabilire “codici di concorrenza leale” tra i produttori in un determinato ramo dell’industria, includendo in quei codici disposizioni precise per regolare i rapporti tra le organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro e le condizioni di lavoro (sezione 7a del N.R.A.), e stabilendo una nuova forma di cooperazione che equivale quasi a un sistema di autogoverno nell’industria. Le due tendenze possono essere descritte con termini che mostrano la differenza di metodo ma la somiglianza di sostanza: in Italia, “cooperazioni di classi”; negli Stati Uniti, “cooperazioni nell’industria”.”

III

Molti dei principi fondamentali su cui doveva poggiare la soluzione economica gradualmente evoluta dal fascismo si trovano nelle leggi del 3 aprile 1926, riguardanti il controllo legale del lavoro e della produzione, e nella “Carta del lavoro” pubblicata il 21 aprile 1927.

La prima di queste leggi conteneva diverse disposizioni fondamentali: 1. Il pieno riconoscimento giuridico da parte dello Stato di quelle associazioni di datori di lavoro, lavoratori, professionisti e artisti che sono destinate a salvaguardare gli interessi dei loro membri e che sono in grado di firmare contratti vincolanti per questi membri. 2. Uguaglianza davanti alla legge delle organizzazioni di datori di lavoro e dei sindacati. 3. L’istituzione di tribunali del lavoro con il potere di risolvere le controversie di lavoro che riguardano sia gli individui che i gruppi. 4. Il divieto, con sanzioni, di scioperi e serrate.

In applicazione del primo principio, il fascismo decise di stabilire all’interno di ogni grande gruppo professionale un’organizzazione sindacale legalmente riconosciuta. A ciascuno di questi sindacati furono date delle prerogative. Aveva la supervisione esclusiva degli interessi di tutto il gruppo professionale in questione, e ne fu fatto il portavoce ufficiale. Aveva il diritto esclusivo di regolare, con contratti collettivi, i rapporti di lavoro di tutti i membri di quel gruppo. Aveva il diritto di imporre contributi sindacali. Aveva il diritto di nominare i delegati ogni volta che era richiesta una rappresentanza. E aveva il diritto, accordato in un secondo tempo, di raccomandare al Gran Consiglio del Fascismo i candidati per la nuova Camera dei Deputati.

Ma prima di essere riconosciuto legalmente e investito di questi poteri il gruppo doveva soddisfare alcuni requisiti. Specificherò le qualifiche più importanti. Un sindacato di salariati deve avere almeno il 10% di tutti i lavoratori di quel gruppo professionale. Un sindacato di datori di lavoro deve essere composto da membri che impiegano almeno il 10% dei salariati di quel gruppo. Per essere riconosciuto, un sindacato deve avere un programma sociale per il benessere dei suoi membri (soccorso, educazione tecnica nel mestiere o nel ramo di produzione, educazione morale e nazionale). Infine, i funzionari di un sindacato devono essere competenti, devono avere un buon carattere morale e devono essere affidabili in materia di dottrina nazionale.

Il sindacalismo era così definitivamente spogliato degli ultimi residui di quelle influenze politiche antinazionali e internazionali che in passato avevano teso a portarlo fuori strada. Era pronto a svolgere una funzione precisa e ben definita nell’orbita dello stato nazionale fascista.

La legge del 1926 stabilì le basi per un’organizzazione razionale dei produttori italiani. Li divideva nei seguenti gruppi: agricoltura, industria, commercio, credito e assicurazioni, professioni e arti. Al vertice di ciascuno, ad eccezione dell’ultimo, ci sono due organizzazioni sindacali centrali chiamate “confederazioni”, attraverso le quali operai e datori di lavoro trovano una rappresentanza separata. Nel campo delle professioni e delle arti c’è, naturalmente, una sola confederazione. Di conseguenza, nella struttura sindacale italiana ci sono nove confederazioni nazionali, una che rappresenta i lavoratori e una che rappresenta i datori di lavoro in ciascuno dei quattro campi dell’agricoltura, dell’industria, del commercio, del credito e delle assicurazioni, più una nona confederazione che rappresenta i professionisti e gli artisti. La forza numerica di queste organizzazioni può essere indicata da alcune statistiche. Nel 1929 c’erano 4.334.291 datori di lavoro italiani rappresentati da confederazioni di datori di lavoro, di cui 1.193.091 effettivamente membri di queste confederazioni. Nel 1933 i datori di lavoro erano 4.151.794, di cui 1.310.655 effettivamente iscritti. Per quanto riguarda i lavoratori, nel 1929 c’erano 8.192.548 operai rappresentati da quattro confederazioni, 3.193.005 di loro effettivamente membri di queste confederazioni. Nel 1933 c’erano 7.019.383 operai rappresentati, di cui 4.475.256 effettivamente membri.

Una confederazione è suddivisa in federazioni nazionali, ognuna delle quali rappresenta più direttamente i vari tipi di attività che sono coinvolte in un dato campo di produzione. Esse sono estremamente numerose.

La confederazione alla quale partecipano le varie federazioni funziona solo come coordinatore e supervisore in questioni che sono di interesse comune a tutte le federazioni stabilite nel suo particolare ramo di produzione nazionale. Le federazioni estendono la loro influenza su tutto il territorio nazionale attraverso i sindacati locali che sono subordinati a loro. In questo modo ogni ramo della produzione in Italia diventa parte di un’organizzazione nazionale legalmente costituita, anche se i singoli membri di un dato gruppo professionale sono liberi di scegliere se vogliono iscriversi o meno all’organizzazione appropriata.

Con il pieno sostegno della grande maggioranza dei datori di lavoro e dei lavoratori, i sindacati hanno svolto un lavoro prezioso nello sviluppo degli interessi morali ed economici delle persone che rappresentano. La loro attività ha coperto i campi dell’assistenza sociale, dell’istruzione tecnica e generale, del perfezionamento dei metodi di produzione e della riduzione dei costi, e della regolamentazione contrattuale dei rapporti di lavoro. Risolvendo la questione salariale, i sindacati hanno svolto un ruolo importante nella stabilizzazione dell’economia italiana sulla base normale del 90%. Così nei nove brevi anni dal suo inizio nel 1926 il sistema sindacale ha risposto spontaneamente ai bisogni del popolo italiano e ha realizzato pienamente le sue aspettative.

IV

Ma il fascismo italiano non ha limitato il suo programma di riforma all’abolizione del conflitto aperto tra classi e gruppi economici. Non bastava sopprimere gli scioperi e le serrate, dare personalità giuridica, e quindi responsabilità politica, alle associazioni professionali. Questi passi presi da soli rappresentavano la liquidazione del passato piuttosto che la preparazione del futuro. Presto sarebbero stati portati molto più in là. Il sindacalismo fascista doveva diventare più di un semplice metodo di organizzazione. Doveva diventare un sistema vitale destinato a rappresentare una forza attiva all’interno di una nuova società nazionale.

Lo stato fascista ammetteva alla piena cittadinanza – alla pari di unità tradizionali come l’individuo, la famiglia e la città – il sindacato, che come la famiglia e la città abbraccia e completa l’individuo. Attraverso questo nuovo mezzo l’individuo può realizzare la vera autodeterminazione che è sinonimo di libertà.

La grande conquista del fascismo è dunque quella di aver chiarito gli interessi e di averli armonizzati con quelli dello Stato. I sindacati, lungi dall’essere esclusivi nell’appartenenza e egoisti nella visione, partecipano al benessere nazionale e contribuiscono alla sua vitalità e crescita. Lo stato avrebbe fallito sia nel proteggere il cittadino che nel difendere se stesso se avesse continuato a permettere che la vita nazionale fosse sepolta nelle rovine della lotta tra lavoratore e datore di lavoro.

Il fascismo stabilì, come limite legale dell’azione statale, il rispetto degli interessi nazionali e della produzione nazionale. Al di là di questo confine ha dato libero gioco agli individui nel risolvere le loro differenze. L’individuo è così protetto da un duplice ordine di considerazioni. Se si unisce al sindacato e partecipa alle sue attività, si trova automaticamente a svolgere funzioni non solo private ma di natura pubblica. Se sceglie di non aderire al sindacato, gode comunque dei risultati dell’attività sindacale. Perché quest’ultima si estende a tutto il ramo della produzione, indipendentemente dal fatto che un individuo sia o non sia membro del sindacato. La legge italiana ha sempre insistito sull’universalità dell’attività sindacale. Ma garantisce anche il carattere volontario dell’appartenenza al sindacato.

Si può obiettare che l’impulso al sindacalismo o al raggruppamento professionale viene meno se tutti i produttori non sono membri dell’organizzazione sindacale. Ma non bisogna forzare il ritmo. Nessuna struttura sociale può essere allevata su basi arbitrarie. Inoltre, nell’attuale sviluppo dell’organizzazione economica in Italia, i requisiti quantitativi richiesti dalla legge per il riconoscimento di un sindacato sono, dal punto di vista teorico, una garanzia sufficiente della continua efficienza dell’attività sindacale. In pratica, praticamente tutti gli individui impegnati in certi rami della produzione hanno aderito ai sindacati. Questo non può che significare una completa corrispondenza tra il diritto sindacale e i bisogni della popolazione produttrice.

V

Cosa è che ha facilitato il passaggio del nuovo sistema economico italiano dalla sua prima fase, puramente sindacale, alla sua attuale fase corporativa? La risposta va ricercata nella fusione dei fini e degli obiettivi dei singoli gruppi professionali con quelli della nazione nel suo complesso. L’organo attraverso il quale avviene questa fusione di interessi è la corporazione.

Dopo l’organizzazione dei sindacati italiani in un sistema gerarchico unificato (confederazione, federazioni e sindacati locali), il compito che lo Stato fascista si trovò ad affrontare fu quello di concepire un collegamento tra gli organi al vertice della struttura. Senza un sistema di organizzazioni orizzontali di collegamento, i sindacati sarebbero isolati, sarebbero muri senza tetto. Le corporazioni fasciste servono da collegamento. In questo modo i vari sindacati sono messi in contatto tra loro e possono collaborare con il governo al miglioramento della produzione nazionale.

Non è necessario discutere in dettaglio l’evoluzione della corporazione italiana. Basti dire che già nel 1926 le corporazioni furono istituite come organizzazioni di collegamento tra le varie associazioni sindacali. Ma è solo nel 1930 che la riorganizzazione del Consiglio Nazionale delle Corporazioni orienta definitivamente tutto il movimento sindacale verso la sua nuova fase corporativa. La transizione è ancora in corso. Ciò non significa, tuttavia, che il sindacalismo in quanto tale stia scomparendo. I sindacati continuano a svolgere le loro funzioni essenziali senza le quali l’azione corporativa non avrebbe senso e sarebbe impossibile. “Il sindacalismo – scrive Mussolini – non può essere fine a se stesso; o si esaurisce nel socialismo politico o è destinato a convergere verso la corporazione fascista. Perché è nella corporazione che si realizza l’unità economica nei suoi vari elementi (capitale, lavoro e tecnica). È solo attraverso la corporazione, cioè attraverso la coooperazione di tutte le forze che convergono verso un unico fine, che si assicura la vitalità del sindacalismo. In altre parole, sindacalismo e corporativismo sono interdipendenti e si condizionano a vicenda. Senza il sindacalismo la corporazione non è possibile, e senza la corporazione il sindacalismo si spende nelle sue fasi preliminari.”

Quindi il corporativismo, logica conseguenza del sindacalismo italiano, non significa la soppressione del movimento sindacale. Il fatto che la corporazione sia un organo dello Stato non pregiudica in alcun modo l’autonomia delle associazioni sindacali. Quando corporazioni e sindacati si incontrano, uno dei due non cede necessariamente il passo. Questo è chiaramente implicito nelle disposizioni delle leggi approvate nel 1926 e nel 1930, ed è ripetuto anche nella recente legge del 5 febbraio 1934, sulla costituzione delle corporazioni.

VI

Cos’è dunque la corporazione italiana?

Il Consiglio Nazionale delle Corporazioni nel novembre 1933 definì la corporazione come “quello strumento che, sotto il controllo dello Stato, contribuisce a realizzare una organica coordinazione delle forze produttive della nazione al fine di promuovere il benessere economico e la forza politica del popolo italiano”. Il Consiglio aggiungeva che “il numero delle corporazioni da istituire nei vari grandi campi di produzione deve corrispondere, nel complesso, alle reali necessità dell’economia della nazione. Lo stato maggiore della corporazione deve comprendere rappresentanti degli organi del governo, del partito fascista, del capitale, del lavoro e dei tecnici”. Il Consiglio assegnava inoltre alle corporazioni “i compiti specifici di conciliazione e di consultazione e, attraverso il Consiglio nazionale delle corporazioni, il compito di approvare leggi destinate a contribuire alla regolamentazione dell’attività economica della nazione”

Con la legge del 5 febbraio 1934, questi criteri giuridici furono messi in pratica, dando alla corporazione italiana poteri definiti non solo nel campo della coordinazione sindacale ma anche in quello più importante della coordinazione della produzione nazionale. Gli articoli 8, 10 e 11 della legge trattano in dettaglio il potere delle corporazioni. L’articolo 8 decreta che la corporazione ha il potere di “determinare le norme per la regolazione collettiva dell’attività economica e per la regolazione unitaria della produzione”, un’affermazione ampia ed estensiva volutamente adottata per dare la massima flessibilità agli organi di nuova costituzione. La ragione fondamentale dell’intervento nell’attività produttiva è stata dichiarata da Mussolini: “Non esiste un’attività economica di carattere puramente privato e individualistico. Dal giorno in cui l’uomo è diventato per la prima volta membro di un gruppo sociale, nessun atto che un individuo compie inizia o finisce in se stesso. Ha, al contrario, delle ripercussioni che vanno ben oltre la sua persona”. L’articolo 10 autorizza la corporazione a stabilire le tariffe dei servizi economici e i prezzi di consumo di quei beni offerti al pubblico in condizioni di monopolio. L’articolo 11 descrive i mezzi legali per far rispettare le tariffe dei servizi e dei prezzi monopolistici. Così la regolazione della produzione nazionale è affidata a un organo, la corporazione, che comprende non solo i sindacati (cioè i rappresentanti dei datori di lavoro e dei lavoratori), ma anche i rappresentanti del partito fascista (cioè i portavoce di tutta la comunità) e i rappresentanti dei vari dipartimenti del governo.

La corporazione stessa diventa così un organo dello stato. Essa opera all’interno dello Stato e sotto la sua diretta supervisione. Di conseguenza, l’economia fascista non è solo un’economia controllata o regolata o pianificata. È qualcosa di più: è un’economia organizzata. È organizzata a causa della coooperazione di tutte le forze produttive sotto il controllo dello stato. Né lo Stato né la corporazione prendono su di sé la produzione. La produzione rimane nelle mani dell’industria privata, tranne in quei rari casi in cui lo stato si impegna direttamente nella produzione per ragioni politiche. Solo la regolazione, la coordinazione e il miglioramento della produzione sono affidati alla corporazione. La moderna corporazione italiana è essenzialmente diversa, quindi, dalla corporazione medievale. Quest’ultima si trovava spesso in aperto conflitto con lo Stato. Inoltre, essa regolava e controllava la produzione nell’interesse egoistico del suo gruppo professionale senza tener conto degli interessi del consumatore e del gruppo sociale nel suo insieme. La corporazione fascista, pur accettando la collaborazione di vari gruppi interessati, incarna nelle sue norme e regolamenti gli interessi generali della società. L’originalità e l’efficacia della soluzione fascista sta in questo nuovo concetto di corporazione.

VII

L’Italia fascista non meno degli Stati Uniti si è sforzata di portare la vita economica sotto la regolamentazione del diritto pubblico. “Per come la vedo io”, scrive il presidente Roosevelt, “il compito del governo nella sua relazione con gli affari è di assistere lo sviluppo di una dichiarazione economica dei diritti, un ordine costituzionale economico. Questo è il compito comune degli statisti e degli uomini d’affari. È il requisito minimo di un ordine della società più permanentemente sicuro. Fortunatamente, i tempi indicano che creare un tale ordine non è solo la giusta politica di governo, ma è anche l’unica linea di sicurezza per la nostra struttura economica. Ora sappiamo che queste unità economiche non possono esistere se la prosperità non è uniforme, cioè se il potere d’acquisto non è ben distribuito in ogni gruppo della nazione.”

Questo è ciò che Mussolini cerca di realizzare, quando, traducendo la concezione economica in una etica, perfeziona gli organi che devono portare ad una maggiore giustizia sociale. Cos’è esattamente una maggiore giustizia sociale? Mussolini la definisce come “il diritto assicurato al lavoro, un’equa retribuzione, un’abitazione decorosa, la possibilità di una costante evoluzione e di un costante miglioramento”. Significa “che i lavoratori devono acquisire una conoscenza sempre più intima del processo produttivo e imparare a partecipare alla sua necessaria regolazione”. Il problema è sia di produzione che di distribuzione. “La scienza moderna”, osserva Mussolini, “è riuscita a moltiplicare la ricchezza. La scienza, controllata e stimolata dalla volontà dello Stato, deve ora applicarsi a risolvere l’altro grande problema: quello della distribuzione della ricchezza, di porre fine all’illogico e crudele fenomeno della miseria e degli stenti in mezzo all’abbondanza.”

La stessa visione di una società organizzata su una base più stabile e su principi di maggiore giustizia sociale anima i due leader nazionali; e l’ideale comune, fortemente sentito dalle due nazioni, si riflette chiaramente nel loro lavoro. Gli strumenti utilizzati in questo lavoro variano nella concezione e nei dettagli, ma la somiglianza del fine ultimo rende possibili analogie che hanno un significato molto profondo.

Il principio cardine alla base dell’organizzazione della società italiana è quello del “ciclo produttivo”. Un ciclo completo di produzione si estende dal reclutamento delle materie prime alla commercializzazione del prodotto finito. Ogni società include rappresentanti di tutte le fasi principali del ciclo.

Le ventidue società italiane di nuova costituzione sono state divise in tre gruppi principali. Il primo gruppo comprende corporazioni che rappresentano un ciclo produttivo completo. Tra queste ci sono le società di grano e prodotti del grano, di viticoltura, di barbabietole e zucchero, di zootecnia, pesca e prodotti affini, di legno e prodotti del legno, di tessili e prodotti tessili. Nel secondo gruppo ci sono le corporazioni che comprendono solo un ciclo industriale e commerciale. Tra queste ci sono le corporazioni delle industrie chimiche, dell’industria dell’abbigliamento, della carta e della stampa, e dell’edilizia. Il terzo gruppo di corporazioni, i cui membri sono impegnati nella produzione di servizi, include le corporazioni delle libere professioni e delle arti, del credito e delle assicurazioni, del trasporto marittimo e aereo. Ogni corporazione comprende i rappresentanti, in numero uguale, dei lavoratori e dei datori di lavoro del settore, e i rappresentanti del partito fascista e del governo. La presidenza di ogni corporazione è affidata al Ministro delle Corporazioni, mentre il vicepresidente è un membro eletto tra i rappresentanti del Partito Fascista. Come è già stato spiegato, tra le importanti funzioni affidate alle corporazioni ci sono la regolazione della produzione nazionale, la coordinazione dei rapporti collettivi di lavoro, la risoluzione delle controversie di lavoro e il compito di agire come organi consultivi del governo nazionale.

Ci sono molti punti fondamentali comuni nei programmi del presidente Roosevelt e del premier Mussolini. Entrambi desiderano una più equa distribuzione della ricchezza, l’instaurazione di un più solido equilibrio sociale e l’eliminazione delle perturbazioni introdotte in questo equilibrio dall’ascesa di potenti interessi finanziari e industriali. Ma se gli interessi fondamentali sono gli stessi, i mezzi di azione sono molto diversi. Il premier Mussolini cerca di realizzare l’ideale di una maggiore giustizia sociale attraverso la macchina della rappresentanza sindacale e occupazionale e la trasformazione dei gruppi economici organizzati unitariamente in organi dello Stato. Nel programma americano rimane ancora una netta separazione tra lo stato e le organizzazioni dei produttori. Negli Stati Uniti c’è ancora da trovare da una parte lo stato con la sua burocrazia (la N.R.A. e le sue divisioni legali, di ricerca e di pianificazione) e dall’altra i produttori privati, organizzati o non organizzati, e liberi di agire come vogliono tranne che per le limitazioni che il governo può imporre. In questa distinzione sta, a mio avviso, la più grande differenza tra i due programmi di azione sociale.

Nonostante questa differenza, ci sono evidenti similitudini tra il programma italiano e quello americano. Queste somiglianze si trovano principalmente nel campo delle relazioni collettive di lavoro e nell’istituzione stabilita per la conciliazione delle controversie di lavoro. Pur avendo obiettivi simili, anche le istituzioni del lavoro non sono le stesse nei due paesi. Negli Stati Uniti il neoistituito National Labor Board agisce solo a titolo consultivo. In Italia i tribunali del lavoro hanno l’autorità di emettere sentenze definitive; possono, inoltre, impedire qualsiasi ricorso a scioperi, serrate o altri mezzi violenti di guerra di classe. Un’altra differenza tra i due programmi è che negli Stati Uniti l’effettiva elaborazione delle regole e dei principi dei codici, compresi quelli in materia di rapporti di lavoro, è, nonostante la supervisione del governo, principalmente nelle mani dei datori di lavoro. In Italia, al contrario, i rapporti di lavoro sono regolati dalla negoziazione tra le organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori, che hanno entrambe pari diritti e status giuridico.

I codici americani hanno lo scopo non solo di regolare i rapporti collettivi di lavoro ma anche di limitare la concorrenza e le pratiche commerciali sleali. Ma poiché sono redatti esclusivamente per e all’interno di singoli gruppi industriali, la corretta coordinazione tra questi vari gruppi è difficile e incerta. Il risultato sembra essere il trionfo degli interessi del singolo gruppo industriale piuttosto che il trionfo dell’interesse della comunità. In Italia, come abbiamo visto, la regolazione della concorrenza, le questioni di limitazione della produzione e dei prezzi, i rapporti collettivi di lavoro, ecc. sono di competenza della corporazione e del Consiglio Nazionale delle Corporazioni. Queste istituzioni sono in una posizione molto migliore di qualsiasi gruppo industriale isolato per regolare non solo gli interessi particolari del gruppo ma anche gli interessi della comunità nel suo insieme.

Il successo della riforma americana nel campo industriale è legato ai codici della concorrenza leale. Sarà davvero interessante seguire l’ulteriore sviluppo dell’esperimento e vedere come il popolo americano, entro i limiti delle proprie tradizioni e istituzioni, troverà una soluzione al problema della regolamentazione statale delle forze della produzione nazionale. Un ritorno a un sistema di assoluto individualismo economico è fuori questione. Sembrano rimanere solo due possibili direzioni in cui può avvenire un ulteriore sviluppo: un maggiore intervento statale e controllo burocratico, e l’elevazione delle organizzazioni produttive della nazione alla dignità e alla responsabilità di organi autonomi e autogestiti dello stato. L’intero passato della civiltà americana punta decisamente contro l’adozione della prima soluzione. Per la seconda manca ancora, almeno al momento attuale, il quadro giuridico indispensabile per dare un’unità di intenti ad un sistema di rappresentanza sindacale o occupazionale. Una regolazione corporativa della produzione in senso italiano potrebbe essere realizzata solo se, nei codici attuali, si apportassero modifiche sostanziali che permettano una partecipazione molto più ampia del lavoro. Ma data la situazione attuale, sembra che l’opinione pubblica americana debba cambiare molto prima che lo stato, il capitale e il lavoro siano in grado di muoversi armoniosamente verso il loro obiettivo comune. In Italia una buona parte del cammino è già stata compiuta. Un equilibrio è stato stabilito, senza una completa fusione o perdita di individualità, tra il capitale e il lavoro, tra il lavoro e lo stato, e tra lo stato e il capitale.

I proprietari agricoli e i lavoratori agricoli hanno quattro federazioni ciascuno. Ci sono 45 federazioni di proprietari industriali e 29 di operai industriali; 37 di commercianti e 5 di impiegati commerciali; 13 di datori di lavoro nel campo del credito e delle assicurazioni, 4 di impiegati. Inoltre, ci sono 22 sindacati nazionali per artisti e professionisti.

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