SHAKESPEARE E HAMLET

cat.nf064 Dal Nebraska State Journal, (1 novembre 1891): 16.

Il reale significato dell’opera teatrale.

E’ una chiave migliore per il carattere drammatico di qualsiasi cifrario di Donnelly.

Un’attenta stima dello scopo dell’opera e dell’umorismo in cui fu scritta – il segreto del potere di Shakespeare.

Ebbene, Lord Hamlet?

E’ generalmente ammesso che in nessun’altra delle sue opere William Shakespeare mise così tanto di se stesso e della vita della sua anima come in “Hamlet”. Forse questo fatto spiegherà in qualche misura l’enfasi che viene posta sull’opera e l’importanza che le viene data nella letteratura inglese. Per lo studente di Shakespeare l’opera ha dimostrato di essere una chiave migliore per il vero carattere dell’uomo che ha scritto i più grandi drammi in lingua inglese che il crittogramma del signor Donnelly. È vero, non dice il suo nome, ma è tempo, in quest’epoca, che si cominci almeno a preoccuparsi poco dei corpi e delle ossa dei promulgatori della nostra grande fede e dei fondatori delle nostre grandi organizzazioni. Essi stessi erano più attenti alle loro verità che alle loro persone. Si suppone che il culto delle reliquie e la guerra per il santo sepolcro siano finiti con il Medioevo.

La causa delle varie opinioni correnti sul personaggio di Amleto, e la radice di molti dissensi e controversie è che molti dei migliori studiosi e critici cercano di fare di Amleto un personaggio molto più grande, più colto e più intellettuale di quanto l’autore dell’opera abbia mai voluto che fosse. Non credo che Shakespeare avesse uno scopo preciso nemmeno nello scrivere Amleto. Non era da lui pianificare un’opera che doveva essere un rompicapo per tutti i tempi a venire. Probabilmente ha letto la leggenda e si è dispiaciuto per il giovane principe, e come espressione della sua simpatia ha scritto di lui. Probabilmente non aveva intenzione di dare al dramma più di quanto non desse a nessun’altra delle sue opere. Il principe danese non aveva nulla in comune con lui, tranne che entrambi erano incompresi, ed entrambi soffrivano. A poco a poco è cresciuto nel dramma mentre lo scriveva, senza alcuna ragione particolare. Forse le questioni esterne lo opprimevano più del solito. Può darsi che il suo sentimento e la sua individualità fossero intensamente turbati, e si siano insinuati nell’opera che gli è capitato di scrivere.

Hamlet non era certo il filosofo, la mostruosità intellettuale che viene spesso rappresentata. Non era nemmeno lo statista forte, di larghe vedute e consumato dal mondo che Edwin Booth fa di lui. In anni, Amleto non era che un ragazzo che pestava Virgilio giù alla vecchia università di Wittenburg, e scriveva lettere d’amore e brutti versi a Ofelia. Solo pochi anni fa galoppava nel cortile di corte sulla schiena di Yoric. Non ci è dato di intravedere il suo carattere personale prima che il grande dolore lo colpisse, ma anche attraverso di esso alcune delle sue vecchie abitudini da ragazzo si aggrappano a lui. La sua illustrazione di questo è molto evidente nel modo poco sofisticato in cui, dopo il suo primo incontro con il fantasma, tira fuori il suo taccuino per annotare il fatto che “uno può sorridere e sorridere ed essere un cattivo”. Se Amleto avesse conosciuto il mondo un po’ meglio, o se avesse avuto qualche anno in più, non avrebbe ritenuto necessario prendere nota di questo fatto ogni volta che veniva portato a realizzarlo, o tutta la Danimarca non avrebbe potuto fornirgli compresse a sufficienza. Si può quasi immaginare il contenuto di quel taccuino. Note sui vecchi classici, fatte a Wittenberg, estasi su tutto ciò che riguarda la natura, dalla luna alle rose, e vaghe effusioni sulla sua passione per Ofelia.

Nel primo atto, il suo soliloquio è uno dei passaggi più semplici e toccanti della letteratura. Il suo grido, “Fragilità, il tuo nome è donna!” non è un’osservazione cinica sulla figlia di Eva. Un cinico avrebbe formulato il pensiero con un linguaggio molto diverso e si sarebbe divertito a dirlo. Questo è il primo sguardo di un ragazzo su una cosa che lo fa rabbrividire. Non è una questione leggera per lui che le donne siano volubili: sua madre è una donna, e Ofelia lo è. Il suo: “Oh Soel, un cuore che vuole avrebbe pianto più a lungo”. Discorso della ragione, non è una fioritura retorica; è positivamente pietoso. Durante il primo atto, Amleto ha imparato molte lezioni amare dall’esperienza, il suo migliore, forse, il suo unico maestro. Ma la sua esperienza lo ha anche fatto impazzire e lo ha ucciso. La sofferenza, anche se ha amareggiato la natura di Amleto, non ha potuto avvelenarla. Nel secondo e terzo atto, le sue risposte a Fauriny, raschiando Rosencrantz e Gueldenstern sono certamente ciniche. È il sentimento più tenero e profondo che, una volta inibito, diventa più acre. Quell’uomo che non aveva mai sperato, mai sognato, mai amato, mai sofferto, non è mai un cinico. Ma nella scena con la regina, Amleto dimentica il suo cinismo e torna ad essere il figlio di Gertrude.

Amleto non aveva in sé il primo elemento dell’intellettuale o del filosofo. Non fu mai capace per un momento di mettere da parte quella sua intensa personalità e di vedersi come un individuo di una grande specie, un tipo di una razza. Non poteva vedere Gertrude solo come una donna, commettendo un errore comune alle donne del suo tempo, ma sempre come “Mia madre”. Che il principe abbia fatto molti ragionamenti logici durante il periodo della sua vita che la commedia copre, è improbabile. Durante l’intera opera era sotto un intenso sforzo nervoso; i suoi sentimenti erano portati al massimo livello possibile. Il ragionamento logico e il sentimento intenso sono direttamente antagonisti. I sacerdoti egiziani lo sapevano quando esigevano che un candidato sacrificasse prima le sue passioni e i suoi affetti. Un uomo che vuole nascere alla conoscenza deve infatti diventare morto al mondo. Nessuno dei suoi grandi soliloqui è premeditato; tutti sono perfettamente spontanei. Il famoso “essere o non essere” non guarda verso un’affermazione universale; è semplicemente un’osservazione casuale. Non è molto probabile che in quel particolare momento Amleto intraprendesse una discussione sul destino umano. Aveva finalmente deciso una strada per toccare la coscienza del re; ma mentre rifletteva sulle conseguenze, la confusione, l’agitazione, l’esposizione della colpa di sua madre, il disonore per lo stato, era quasi tentato di prendere la via d’uscita più facile, e riposare. Poi la domanda gli venne come è venuta a molti altri, se è applicabile a chiunque altro, suppongo che Amleto non avrebbe obiettato; ma in quel particolare momento stava pensando completamente troppo al mio Signore Amleto per dedicare molta attenzione all’umanità in generale.

E’ un povero filosofo, perché non ragiona mai, soffre soltanto. Ha delle premesse, centinaia, e salta dal maggiore al minore, e dal minore di nuovo al maggiore, ma si ferma lì; il sillogismo finisce con la sua premessa; non trae mai una conclusione. Dal primo all’ultimo atto, non fa che un’affermazione assoluta, un’affermazione della cui verità è assolutamente sicuro. Quella che fa quando saltando nella tomba della sua amata Ofelia gettando le braccia sopra la testa, a Laerte, il suo volto bianco e luminoso, grida: “Sono io, Amleto il danese!” Nell’ultimo atto, dubita persino della sua identità; dubita di tutto. Le sue parole in punto di morte, “il resto è silenzio”, sono meravigliosamente in linea con il suo carattere.

Se ci rifiutiamo di riconoscere l’intelletto come causa di questa meravigliosa forza di Amleto e lo mettiamo da parte, dobbiamo sostituire qualcosa, perché dobbiamo riconoscere con Polomur: “Anche se questi sono pazzi, il loro metodo non lo è”. La nota chiave del carattere di Amleto è semplicemente questa: Era molto sensibile, sentiva intensamente, e soffriva più degli altri, questo è tutto. La scuola intellettuale si ostina a mettere dei puntelli sotto Amleto perché non lo capisce; perché il primo istinto dell’intelletto è quello di analizzare, e si può solo simpatizzare con Amleto. Cercano di vedere in ogni sua parola un “mezzo”, di produrre certi “effetti drammatici”, di rendere conto di ogni suo atto, quando in realtà non possono renderne conto più di quanto potesse farlo Amleto. Goethe, più ambizioso degli altri, ma con più buon senso della maggior parte di loro, porta la sua grande capacità tedesca sull’argomento, e nel Wilhelm Meister suggerisce leggermente che per rettificare questa scioccante mancanza d’arte si cambi la trama, si rivoluzioni l’intera opera, in modo che ogni causa possa avere il suo effetto percepibile e ogni effetto la sua causa percepibile. Consiglia insomma di rendere drammatico l’Amleto! La scuola intellettuale si rende conto dell’importanza del dramma, ma non gli piace mai del tutto; preferisce sempre Macbeth, sostenendo che c’è più arte in esso. Può essere così; in Amleto abbiamo certamente “più materia con meno arte”. A volte mi chiedo se Shakespeare avrebbe saputo cosa si intendeva, se l’arte, o gli scopi dell’arte nei suoi drammi, gli fossero stati menzionati. Il piano emotivo e intenzionale della vita è infinitamente più alto di quello intellettuale: è la fonte di ogni grande proposito, di ogni scopo esaltante. Non si raggiunge con lo studio; non si vede attraverso un telescopio, né si raggiunge padroneggiando le pagine di una grammatica latina. Questo mondo superiore è calpestato solo da coloro che lo hanno raggiunto attraverso la sofferenza. Alcuni uomini nascono in esso, e li chiamiamo geni. Alcuni lo raggiungono, ma devono percorrere il vecchio sentiero del paradiso, che porta giù attraverso l’inferno. Ciò che viene concepito e scritto in questa rara atmosfera può essere apprezzato, stimato o giudicato solo da uomini che respirano la stessa aria.

Hamlet è stato accordato il posto del più grande capolavoro del più grande maestro, non dai critici letterari, ma dal gusto popolare. Gli stessi critici, preferendo altre opere di Shakespeare, vi dedicherebbero poco tempo se non fosse per la costante richiesta del pubblico. Sulle tavole è stato presentato più spesso e con più successo di qualsiasi altro dramma shakesperiano. Nelle scuole e nei college è ormai indespensabile, e dal grande “pubblico impopolare” è più letto di qualsiasi altro dramma in lingua inglese. Troverete una copia consumata e segnata nell’ufficio di quasi ogni medico, avvocato o commerciante di campagna. Tra gli uomini di tutti i giorni del mondo di tutti i giorni Amleto, per una sorta di ampia metonomia, è arrivato a significare Shakespeare. L’opera è una forza viva e vitale in un’epoca viva, una parte della vita spirituale del XIX secolo. I critici sono stati costretti a studiarla. Lo fanno da un punto di vista completamente intellettuale, e così vedono in essa solo l’intellettuale. La luce che entra attraverso il vetro colorato di una finestra della cattedrale trasforma anche il volto della vergine di marmo nel colore del sangue. I critici non hanno altra luce che quella intellettuale, perché hanno dichiarato che non ci si può fidare delle emozioni e delle intenzioni. Le altre luci le hanno chiamate ignis fatut, e le hanno spente. Analizzano l’opera in modo scientifico, e lo fanno con grande abilità. Prendono un microscopio e vedono tutta la bellezza dell’organizzazione cellulare, un campo in cui gli uomini della scuola emotiva non entrano mai. Dicono: “Questo ha causato la vita” o “Questo è il risultato della vita”, ma la vita non la trovano mai. Pensano di avere tutto, e in effetti hanno molto; la struttura massiccia, la delicata struttura nervosa, e tutto l’organismo perfettamente formato su cui l’occhio dell’anatomista ama soffermarsi. Ma non sentono mai il sangue caldo che scorre nelle pulsazioni, né sentono il grande battito del cuore. Questa è l’unica grande gioia che appartiene esclusivamente a quelli di noi che non sono colti, non letterati, a quelli di noi che non hanno altro. I critici ridono di noi e dicono: certo che c’è emozione in Amleto, ma è solo uno degli elementi primari dell’opera, che non siamo mai avanzati abbastanza per apprezzare l’arte più finita. E così sia. Possiamo rispondere loro solo come un principe indiano rispose a un astronomo inglese quando gli fu rimproverato di adorare il sole. Il vecchio principe ascoltò pazientemente l’uomo di scienza e poi alzò gli occhi verso i torbidi cieli di Londra, spenti e scuri del fumo del traffico e del commercio, e disse: “Oh, mio Signore, se solo potessi vedere il sole”.

Tanto per il critico e per gli intellettuali studenti di letteratura. Ad un giovane autore con il suo primo libro sotto il braccio, che ha avuto una grande verità da dire, e l’ha detta male, sembrano molto forti e molto terribili, questi scribi e farisei, che sono così immacolati nell’osservanza della legge letteraria, e le forme delle loro religioni. Eppure, non sono così forti come sembrano. Hanno fatto del loro peggio a Keats, e hanno solo ucciso il suo corpo. Hanno cercato di cambiarlo, di lucidarlo, di convenzionalizzarlo, e quando lui li ha respinti ed è andato per la sua strada, lo hanno odiato come la fanciulla trace odiava Orphem. Ma i loro dardi erano impotenti finché il mondo rimaneva incantato dalla sua musica. Così sollevarono un grande grido attraverso la rivista di Edimburgo, e annegarono la voce della musica con il loro clamore. Ubriachi dei brutali riti del loro dio, si precipitarono su di lui e lo fecero a pezzi e macchiarono del suo sangue le rocce che erano state mosse e sciolte dalla sua musica. Ma la lira cadde per caso in un grande fiume, e galleggiò oltre le vecchie città e i vigneti e le colline coronate di ulivi, facendo tacere gli usignoli e svegliando con la sua musica la morbida notte italiana. E i bambini che giocavano sotto i mirti ascoltarono e si meravigliarono, e smisero di giocare, e non furono più bambini. E le donne che avevano calpestato il torchio tutto il giorno sentirono stancamente, e la loro vita non sembrò più così dura e si vergognarono meno, e il rosso sui loro piedi non sembrò più tanto sangue come era sembrato ieri. Eppure mormoravano: “Non calpesteremo più il torchio, domani staremo meglio”. E i pastori lontani sulle colline, che custodivano i loro greggi di notte, lo sentirono, e si alzarono e i loro cuori si rafforzarono e sussurrarono: “È l’annuncio; viene un nuovo Cristo”. Allora la lira fluttuò, finché Zeus, il figlio di Krouor, la prese e la pose tra le stelle, dove giace, …Nasce oscuramente, paurosamente lontano, mentre brilla attraverso l’estremo velo del cielo L’anima di Idonair, come una stella. Diventa dalla dimora dove sono gli eterni; E i Traci dicono: “Noi l’abbiamo messo lì”.

Così è per tutta la letteratura che raggiunge il cuore del popolo, dove trova la sua più nobile e sicura immortalità. I critici possono uccidere l’autore, possono attaccare le sue produzioni e fare a pezzi la loro struttura, e dichiarare lo stile imperfetto; ma l’anima non la toccano mai, perché non l’hanno mai raggiunta, l’anima non la uccidono mai, perché non l’hanno mai vista.

La posizione in cui si trovava Amleto non sarebbe stata così terribile per nessun altro. Sarebbe stata una questione molto semplice per Laerte, infatti quando Polonio fu ucciso e Ofelia fatta impazzire, Laerte non era molto gravato da un senso di obbligo filiale o fraterno. Ha cercato di strozzare Amleto, e poi ha affrontato il duello più per una questione di forma che per altro. Non capita spesso che un paese del nord produca un personaggio come Amleto. Sarebbe stato più naturale, forse, come un ragazzo di Venezia o di Verona. A lui sembrava che fosse nato per un solo fine, vendicare suo padre. Per quanto il tocco fosse estraneo e ripugnante alla sua natura, egli lo prese come una sacra missione, una chiamata di Dio, e vi ruppe il suo grande cuore. Egli stesso dice: “Il tempo è fuori posto, oh maledetto dispetto, che io sia mai nato per sistemarlo”.

Non ha mai vacillato nell’esecuzione del suo terribile giuramento al fantasma nel primo atto. Ha davvero cancellato tutto il resto dalla sua mente: libri, arte, ambizione, sì, anche l’amore. Si diede interamente e completamente al suo lavoro. Forse la parte più triste della sua grande abnegazione fu la sua separazione da Ofelia. Non le disse una parola; cosa poteva dire? Ofelia amava la regina e lo avrebbe creduto pazzo se avesse parlato del fantasma. Sarebbe stata dispiaciuta per Amleto, ma non avrebbe potuto capire la sacralità della sua missione né perché dovesse lasciarla. Non avrebbe potuto capire, nessuno avrebbe potuto. La descrizione che ne fa Ofelia è una delle cose più toccanti dell’opera. “Mi prese per il polso e mi strinse forte; Poi va per tutta la lunghezza del suo braccio; E, con l’altra mano poi sulla fronte, cade a tale perlustrazione del mio viso come se volesse disegnarlo. A lungo rimase così; finalmente un piccolo scuotimento del mio braccio e tre volte la sua testa ondeggiando su e giù sollevò un sospiro così pietoso e profondo che sembrò frantumare tutta la sua mole e porre fine al suo essere; che fatto mi lasciò andare; e, con la testa sopra la spalla girata, sembrava trovare la sua strada senza i suoi occhi, perché fuori dalle porte andò senza il loro aiuto, e, fino all’ultimo, finì la loro luce su di me”.

Chiunque altro avrebbe sposato Ofelia, avrebbe usato un po’ di discrezione e alla fine avrebbe governato Danimarca e Norvegia. Sarebbe stato un procedimento infinitamente più sensato, ma Amleto prese la soluzione più difficile del problema perché gli sembrava quella giusta. Non seguiva nessuna legge scritta o parlata, ma la legge del suo cuore, e proprio nella misura in cui questo era più delicatamente organizzato del cuore degli altri uomini, così la legge era più severa e la sua concezione dell’onore più alta, più pura e più intensamente viva. Aveva una carità infinita per tutti gli altri, ma nessuna per se stesso. Non c’è da stupirsi che Goethe sia perplesso nel trovare una spiegazione ai suoi atti; non c’è da stupirsi che tutta la corte lo ritenesse pazzo. Era come un uomo i cui occhi sono più forti di quelli degli altri mortali, e che vede qualche grande stella all’orizzonte che lo chiama, e la segue. Poiché gli altri uomini non la vedono, gli dicono: “Il tuo sospiro è falso”, oppure, con la regina dicono di non vedere “niente di niente, ma tutto ciò che è libero”. L’occhio lontano è tanto malato quanto quello vicino, e può essere un difetto della vista perfetta vedere più degli altri uomini quanto vedere meno degli altri uomini.

Alcuni eminenti scrittori su Amleto hanno, con la più acuta intuizione possibile del carattere di Amleto, e la più forte simpatia d’animo possibile per la sofferenza di Amleto, dopo molte dotte discussioni con infinite analisi dei motivi, deciso che Amleto ha finto la follia. Povero Amleto! “Oh amare così, amava, eppure sbagliava così tanto!” La causa stessa dei suoi guai era che non poteva fingere nulla, come dice alla regina, “sembra, signora, anzi, è, non so sembra”.

La follia di Amleto è il punto più alto della tragedia che Shakespeare abbia mai raggiunto. Qui egli raggiunge i suoi più grandi fini senza alcun trucco di introdurre streghe, o pugnale o macchia di sangue. La tragedia dell’opera non sta nel fatto che una fila di cadaveri copre il palco nell’ultima scena. La vera tragedia dell’opera è la rottura del cuore di Amleto fibra per fibra, muscolo per muscolo. Lo schiocco finale dell’ultima corda tremolante chiude semplicemente la tragedia. Amleto muore alla fine dell’opera, ma sta morendo fin dal primo atto. Alcuni studenti dell’opera hanno detto che sarebbe stato di cattivo gusto per Shakespeare fare del suo primo personaggio un monomane. Evidentemente i gentiluomini che hanno questa visione del caso non hanno dimenticato il loro desiderio infantile di avere tutte le storie che “finiscono bene” e l’eroe che “ama felicemente per sempre”. La vera tragedia è qualcosa di più dello spargimento di sangue. Supponiamo che Amleto sia stato davvero pazzo; supponiamo che abbia sofferto fino a quando quella mente delicatamente equilibrata sia stata la sede di una terribile confusione, “come dolci campane, tintinnanti fuori dal tempo e aspre”. E supponiamo che non fosse caduto nel duello, ma che il grande artista lo avesse lasciato un maniaco senza speranza. Supponiamo invece che Amleto abbia mangiato, bevuto, dormito e letto come al solito, e che abbia finto la pazzia come una questione di convenienza, un segno sotto il quale potrebbe tramare con successo per impossessarsi del trono e vendicare suo padre. Fingere la pazzia era, date le circostanze, la cosa più politica che Amleto avrebbe potuto fare. Lo avrebbe reso padrone della situazione. L’unica meraviglia è che con una diplomazia così accorta in partenza, non gli sia riuscito meglio. Forse non ha recitato abbastanza bene la sua piccola parte, non è stato abbastanza serio. Supponiamo, dico, che il prudente, equilibrato, esemplare Amleto sia stato infine così sfortunato da farsi trapassare dalla spada di Laerte; ora quale, chiedo, è la tragedia più alta, Amleto pazzo o Amleto morto? È forse un pensiero triste che con una tale forza ci debba essere una tale debolezza, ma allora Shakespeare prese il suo più grande, più grandioso personaggio, e, come Apollo alla sacerdotessa che amava, gli diede il discorso divino, mai da capire, la divina profezia, mai da credere; che è allo stesso tempo la maledizione e la più alta eredità del genio.

Amleto che finge la pazzia sarebbe stato una specie di Iago. Grande e bello, nobile e retto, un personaggio come Iago è certamente, e puro ed elevato come è il gusto di coloro che lo hanno ammirato sopra tutti gli altri personaggi shakespeariani, Shakespeare non avrebbe potuto, anche se lo avesse voluto – come senza dubbio ha fatto – dare ad ognuno delle sue diverse migliaia di personaggi la caratteristica nobile di Iago senza produrre un effetto quasi di monotonia.

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