Poche linee melodiche nella storia della musica popolare sono così onnipresenti come quella del singolo “All Apologies” dei Nirvana del 1993. Anche se, ad oggi, i riff di apertura di ‘Smells Like Teen Spirit’ o ‘Come As You Are’ sono probabilmente più onnipresenti in termini di riproduzione radiofonica, ‘All Apologies’ ha una qualità completamente diversa, una sorta di languore mistico che cerca di imprimersi permanentemente nella parte posteriore del tuo cervello. Forse sono solo io, ma non posso essere l’unico che si ritrova a canticchiare quella canzone in modo irregolare ma stranamente costante – quella pervasività quasi spettrale è praticamente incorporata nel suo DNA musicale, abitando una sorta di spazio condiviso nella nostra coscienza collettiva. Dave Grohl ha detto della canzone in un’intervista del 2005 all’Arpa: “Ricordo di averla sentita e di aver pensato, ‘Dio, questo ragazzo ha un così bel senso della melodia, non posso credere che stia urlando tutto il tempo'”
Forse la sola teoria musicale può spiegare adeguatamente perché la canzone è così potente – Kurt Cobain aveva infatti un’improbabile inclinazione per le melodie pop, un riflesso di alcune delle meno evidenti influenze mainstream che permeano la sua musica. Ma un’altra teoria apparentemente non meno valida è che Cobain abbia infuso parte della sua anima nella canzone, il che spiegherebbe il suo posizionamento come dodicesimo e ultimo brano dell’ultimo sforzo in studio della band, In Utero. Anche se la narrativa popolare secondo cui l’album serviva come una sorta di suicidio rock n’ roll è stata da allora sfidata dai critici che sono stati in grado di separare la musica di Cobain dal suo contesto luttuoso sottolineando la cruda vitalità del suono dell’album, è ancora difficile fare lo stesso ragionamento per ‘All Apologies’, un capolavoro inquietantemente struggente che è guidato da un senso di rassegnazione e noia esistenziale che consuma tutto. Nonostante sia ricoperta da strati di sarcasmo, sembra impossibile non vedere il tono apologetico di testi come “tutto è colpa mia” e “mi prenderò tutta la colpa” come una premonizione del suicidio di Cobain.
Ma c’è molto da spacchettare dietro la formula ingannevolmente semplice della canzone. In maniera più evidente, “All Apologies” si presenta in parte come una risposta sardonica alla ritrovata fama di Cobain e all’esame che ne è derivato – che, naturalmente, è spesso visto come la formazione delle condizioni che hanno portato alla sua morte. Accompagnato da una melodia svogliatamente in levare, Cobain emette delle false scuse a tutti coloro che si sono formati delle aspettative multiple, a volte contrastanti, su di lui. Apre la canzone con la domanda retorica “Cos’altro dovrei essere?” prima di mettere in rima “Cos’altro potrei dire?” con il famigerato “Tutti sono gay”, prendendosi gioco non solo di coloro che furono veloci ad offendersi per ogni sua parola, ma anche di coloro che lo lodarono come profondamente profondo e in qualche modo rivelatore. Entrambi erano colpevoli dello stesso crimine: costruire una falsa percezione di lui basata su una narrazione di cui non aveva il controllo, ma con la quale poteva almeno giocare sotto forma di una canzone stupida.
Per quanto ragionevole possa sembrare questa interpretazione, la storia della canzone la rende anche un po’ implausibile. Si dice che “All Apologies” sia stata scritta già nel 1990 e registrata per la prima volta da Craig Montgomery ai Music Source Studios di Seattle, Washington, il 1° gennaio 1991, sette mesi prima dell’uscita di Nevermind e un intero anno prima che Cobain e Courtney Love si sposassero. E anche se i testi erano davvero molto diversi, le linee che ora sono viste come riferite alla sua fama e al suo tumultuoso matrimonio erano ancora lì – o lui era, come molti dei suoi più ardenti seguaci vorrebbero, capace di predire magicamente il futuro, o questo non era affatto il significato voluto. Per quanto ne sappiamo, Cobain non voleva nemmeno che la canzone suonasse minacciosa, ma genuinamente calma – “pacifica, felice, confortante – solo felicità felice” fu come la descrisse a Michael Azerrad nella biografia del 1993 Come As You Are: The Story of Nirvana. Dedicò la canzone a Courtney Love e alla loro figlia, Frances Bean Cobain, spiegando che “le parole non si adattano molto a noi… il sentimento sì, ma non il testo”
Certo, è del tutto possibile che la canzone abbia inavvertitamente assunto un nuovo significato quando la popolarità della band cominciò a salire alle stelle, il che può essere rintracciato nelle molte mutazioni che apparvero durante la sua vita. Quel primo demo, che è apparso sulla ristampa del 20° anniversario dell’album, è un taglio acustico che prende ispirazione dai Beatles nel loro momento più allegro, giustamente descritto da Stuart Berman di Pitchfork come “trasmutando il senso di rassegnazione generale della canzone in un ottimismo dagli occhi luminosi e fresco di partenza”. Il testo è ancora più semplicistico di quello che appare nella versione finale, con Cobain che canta: “Tu mi hai rubato delle cose/ Tutte le scuse/ Io ti ho rubato delle cose/ Tutti noi siamo accusati”. Cobain potrebbe puntare il dito contro una persona specifica qui, ma è disposto a passare felicemente oltre quella che sembra essere una disputa relativamente meschina. Anche quello che ora è diventato uno dei versi che definiscono la canzone suona più come “married/ married” – l’oscuro cinismo dell’equazione “married/buried” non è ancora entrato in gioco. “All in all is all we are”, il mantra buddista che chiude la canzone e che racchiude tanta parte della filosofia della band, è anche notevolmente assente – tutto sommato, è solo un pezzo ironicamente allegro.
Un altro demo, questa volta registrato da Cobain stesso nella sua residenza in una data sconosciuta, ricorda di più la versione che ricordiamo oggi, anche se naturalmente molto più intima. Mentre suona più conflittuale che nell’altro demo (“Non voglio combattere”, dichiara nella prima strofa, invece di “Non ne ho il diritto”), questa volta si tratta più di un conflitto interno; la canzone non si rivolge più a un tu specifico, ma piuttosto si dirige verso una personale auto-riflessione. Ma non si è ancora evoluta nel tipo di meta-commento sulla sua immagine pubblica che la canzone sarebbe diventata in seguito: “Che altro potrei essere?” canta invece del più pungente “Che altro dovrei essere?”. L’unico caso in cui non usa la prima persona è nell’outro della canzone, dove fa riferimento a quella citazione profondamente spirituale su come tutte le cose nell’universo sono collegate – che dovrebbe servire a sottolineare la significatività della sua stessa esistenza ma invece sembra alludere a una schiacciante sensazione di insignificanza e alienazione (non è una coincidenza che il verso sia spesso sentito come “All alone is all we are”). Questo non implica necessariamente che fosse un segno precoce di ideazione suicida – qualsiasi suggerimento del genere è probabilmente poco più di un tentativo di inserire il testo della canzone in qualche narrazione mediatica che circonda la morte di Cobain. Ma quando improvvisamente ti ritrovi ad essere idolatrato da milioni di persone in tutto il mondo, probabilmente aiuta essere ricordato che, nel grande schema delle cose, non sei più importante di una formica.
‘All Apologies’ è spesso ricordata come una canzone che è iniziata come una composizione elettrica prima di essere immortalata su MTV Unplugged, ma non è stata eseguita come un brano elettrico fino alla sua prima performance dal vivo alla Wolverhampton Civic Hall in Inghilterra il 6 novembre 1991. La cosa interessante di questa performance è che non solo Cobain cambia la battuta finale con il più accurato “tutto è uno e uno è tutto”, ma suona anche a disagio con quella verità universale, urlandola più forte che in qualsiasi altra versione. Se state cercando una registrazione dal vivo più curata che suoni anche come se provenisse da una band grunge, però, Live at Reading del 1992 offre proprio questo, aumentando l’intensità e mostrando allo stesso tempo più di quel senso di moderazione che avrebbe definito il brano. Di tutte le versioni coperte finora, suona la più vicina a quella in studio, che fu registrata nel febbraio del 1993 con il leggendario Steve Albini ai Pachyderm Studios di Cannon Falls, Minnesota.
Ancora provvisoriamente intitolata ‘La La La’ (che, stranamente, suona esattamente come quello che qualcuno che non sta prestando seriamente attenzione al testo – in pratica chiunque si imbatta per caso nella radio – sentirebbe durante l’outro della canzone), la versione in studio presenta l’importante aggiunta del violoncello, che ora è fortemente associato al brano come la melodia della chitarra. Suonato da Kera Schaley, la sua incombente presenza di sottofondo è in gran parte responsabile dell’atmosfera inquietante del brano, che è ciò che lo trascende ad un livello completamente nuovo. Ma la versione in studio che apparve sull’originale In Utero non suonava come Albini intendeva. Insieme a ‘Heart-Shaped Box’ e ‘Pennyroyal Tea’, ‘All Apologies’ fu affidata al produttore dei R.E.M. Scott Litt per creare una versione più pulita e radio-friendly che, nelle parole del bassista Krist Novoselic, sarebbe servita come “porta d’ingresso” al suono più alternativo dell’album. In un’intervista del 1993 con Jon Savage, Cobain disse che il problema era che “la voce non era abbastanza forte… In ogni mix di Albini che ho sentito, la voce è sempre troppo bassa. Questo è solo il modo in cui gli piacciono le cose, ed è una persona davvero difficile da convincere altrimenti”. Ascoltando il mix originale, che è apparso sulla ristampa del 20° anniversario dell’album, la voce è effettivamente affogata in un modo che quasi involontariamente si adatta al tema della canzone, la voce sofferente di Cobain che lotta per elevarsi sopra il caos della distorsione e quel mostruoso calcio del rullante. Ma in ogni altro modo, le differenze sono quasi indecifrabili, una testimonianza della quantità di controlli a cui la band era costantemente sottoposta dalla loro etichetta.
La canzone fu pubblicata come singolo a doppio lato A insieme alla molto più controversa ‘Rape Me’ il 6 dicembre 1993, aumentando le vendite di In Utero, che era uscito due mesi prima. Per la copertina del singolo, l’unica istruzione di Cobain al direttore artistico Robert Fisher fu che voleva “qualcosa con cavalli marini”. Anche se nessuno sa esattamente perché scelse quell’immagine, è interessante notare che durante quei primi live del 1991, aprì la canzone con “Living in the sea” (insieme a “What else can I do/ I’m in love with you”). C’è anche il verso “aqua seafoam shame”, che potrebbe essere interpretato in diversi modi. Potrebbe essere solo un esempio di gioco di parole assurdo – Cobain, anche se a volte visto come un debole paroliere, aveva una propensione per la poesia astratta, a volte senza senso; in alternativa, potrebbe essere un riferimento al suo uso di eroina, specialmente insieme al verso “find my nest of salt”, anche se questo sembra un po’ esagerato; e infine, potrebbe alludere ai sentimenti di auto-disprezzo che Cobain stava provando dopo il successo di Nevermind, dato il simbolismo della copertina iconica dell’album. Anche se questo tipo di dissezione lirica è esattamente ciò che Cobain avrebbe disprezzato, non si può negare che ci sia almeno un certo significato nel motivo delle immagini subacquee che ricorrono in tutto il lavoro dei Nirvana.
Anche se si è tentati di collegare la scelta di Cobain di un cavalluccio marino per la copertina del singolo all’antica credenza, prevalente tra i Fenici e gli Etruschi, che gli ippocampi accompagnassero i morti nel loro viaggio nell’aldilà, è molto più probabile che sia solo un’altra manifestazione della lunga fascinazione di Cobain per i cavallucci marini, in particolare quelli incinta. “Era molto interessato all’intero aspetto che i maschi portassero in grembo i loro piccoli”, ha detto Fisher, un fatto ulteriormente evidenziato dal suo artwork originale e dagli schizzi apparsi nei suoi Journals (che contenevano anche una proposta di video per ‘Rape Me’ che includeva scene di cavallucci marini e un uomo che si preparava per un esame ginecologico). Questo si collega anche al titolo dell’album, poiché la capacità del cavalluccio marino di fornire un grembo per l’embrione è un caso di ciò che è scientificamente noto come in utero pateris. Naturalmente, niente di tutto ciò spiega esattamente perché Cobain fosse così ossessionato dai cavallucci marini, ma dato che dedicò la canzone a sua figlia, che nacque nell’agosto del 1992, si potrebbe ragionevolmente ipotizzare che fosse una proiezione dei suoi nuovi istinti paterni emergenti, così come il suo disprezzo di sempre per i ruoli di genere fissi. Ma lo stesso anno in cui Cobain disse a Spin che i testi di In Utero erano “più focalizzati, sono quasi costruiti su temi”, disse anche a Q che l’abbondanza di immagini di bambini e neonati non aveva nulla a che fare con la sua ritrovata paternità. Alla fine della giornata, è probabilmente più saggio attenersi a ciò che ha detto in un’intervista con Frédéric Brébant (parlando di ‘Teen Spirit’): “Qualunque cosa tu voglia farne. Dipende da voi. È il tuo cruciverba”
“All Apologies” non avrebbe trovato lo stesso successo commerciale se non fosse stato per MTV Unplugged, né avrebbe lo stesso tipo di risonanza. Considerata da molti come la versione definitiva della canzone, è molto più di una semplice interpretazione acustica – è agghiacciante e intima come quel demo casalingo, ma molto più maestosa e raffinata nella sua bellezza, la voce ruvida di Cobain accompagnata dalla batteria insolitamente silenziosa di Dave Grohl e dalla grandezza ultraterrena del violoncello. È una testimonianza stupefacente di quanto Cobain possa essere perfettamente preciso e composto nella sua consegna, che serve solo ad amplificare le tensioni emotive che bollono sotto la calma patina della canzone. Oltre a dimostrare la capacità della band di diversificare il proprio suono con più successo di qualsiasi altro loro coetaneo, la cruda sincerità di Cobain dipinge anche la canzone in una luce diversa, mettendo in dubbio l’idea che fosse solo una canzone scherzosa. Nell’ambiente cupo di Unplugged, il mantra finale canticchiato della canzone, giustamente descritto da Kyle McGovern di Spin come “un epitaffio in parti uguali sconcertante, confortante e devastante”, assume anche più peso – proprio come sembra allungarsi all’infinito.
“All Apologies” è stata eseguita per l’ultima volta da Cobain il 1° marzo 1994 al Terminal Einz di Monaco, in Germania, ma nell’aprile del 2014, i membri superstiti dei Nirvana – Novoselic, Grohl e Pat Smear – hanno eseguito la canzone con nientemeno che Lorde alla voce principale per la cerimonia di induzione della Rock and Roll Hall of Fame della band. La performance in sé è stata più che soddisfacente, ma il suo potere è stato soprattutto simbolico – per prima cosa, ha caratterizzato le icone del rock Annie Clark, Kim Gordon e Joan Jett, che potrebbe essere visto come un cenno all’abbraccio del femminismo di Cobain così come la sua stretta alleanza con il movimento riot grrl. E anche se scegliere una stella nascente del pop per cantare una canzone dei Nirvana poteva sembrare un’idea discutibile all’inizio, la decisione ha evidenziato quanto la canzone fosse davvero “poppy”. Ma c’è anche un parallelo molto più ovvio e significativo – proprio come Cobain, Lorde è stata ripetutamente descritta come “la voce di una generazione”, una caratterizzazione che lei non ama particolarmente. La sua musica si rivolge alle masse e allo stesso tempo è unicamente alternativa – come ha detto Grohl, “C’è qualcosa in lei che rappresenta o assomiglia all’estetica dei Nirvana”
Dal suo inizio all’ultima volta che è stata eseguita, però, la linea melodica della canzone rimane una costante stimolante, che sembra occupare una sorta di spazio liminale. La sua risonanza da ninna nanna la rende una scelta improbabile ma perfetta per la serie Rockabye Baby, che reinterpreta canzoni popolari in ninna nanne orientate ai bambini, e non è solo per lo strano modo in cui l’intero concetto è collegato all’immaginario infantile dell’album. Pubblicata come parte dell’album Lullaby Renditions of Nirvana del 2006 e utilizzata con effetto ossessivo nell’eccellente documentario Montage of Heck del 2015, la traccia rivela la vera essenza della canzone quando viene spogliata fino al suo nucleo – più, a mio parere, anche della performance di MTV Unplugged. Una ninna nanna ha la qualità inquietante di esistere sia dentro che fuori la coscienza di qualcuno, la sua eco persiste anche dopo che ti ha cullato nel sonno. All Apologies’ si sente senza tempo non solo nel senso che resiste alla prova del tempo, ma anche nel modo in cui la sua eco fantasma sembra non svanire mai veramente, come se sfuggisse interamente al tempo – una vera incarnazione del mantra “Tutto in tutto è tutto ciò che siamo”. La canzone è spesso ricordata come l’ultimo addio di Cobain, una premonizione ineluttabile del suo suicidio, ma è davvero un ricordo che, nel senso più scomodamente reale, il suo spirito vive attraverso la sua musica.